Perché fare domande e non fermarsi alle risposte?

Di Terry Bruno, psicoterapeuta e formatrice PNL
Pubblicato su “Tuttoscuola”, dicembre 2005, n. 45

Einstein si chiedeva come sarebbe stato viaggiare su un raggio di luce. Picasso a sua volta si chiedeva: cosa possiamo fare se prendiamo un oggetto, lo rompiamo e lo frantumiamo in molte parti? Freud si poneva domande fondamentali sui sogni.
Domande e ancora domande, sempre più insistenti per scoprire e giungere a risultati sempre nuovi e interessanti, che a loro volta non fanno altro che stimolare nuove idee e curiosità.
Quello che questi grandi personaggi del passato hanno fatto è stato il non soffermarsi su ciò che hanno ottenuto ma il lasciarsi andare a ciò che si poteva ulteriormente ottenere dai loro risultati. È un modo di capovolgere le cose, vederle in modo diverso. Se vogliamo usare una metafora potremmo paragonare il tutto ad un bellissimo tappeto persiano in cui è possibile osservare una rosa cremisi in un angolo e un tramonto rosso cupo in un altro. Ma se rovesciamo il tappeto, allora, ci si può rendere conto che ciò che percepivamo come cremisi e rosso cupo sono tra loro collegati da un filo dello stesso colore. Sul diritto apparivano diversi in quanto circondati da altri colori. È opportuno, quindi, ribaltare il problema e osservarlo da varie angolazioni, perché solo così è possibile scoprire collegamenti nascosti.
La capacità di vedere le cose da vari punti di vista, in modo nuovo, è necessaria per mettere in discussione ogni assunto, cioè non avere alcun preconcetto.
La creatività non è qualcosa che si costruisce, ma è innata in ognuno di noi già dai primi mesi di vita, nel nostro desiderio e impulso di esplorazione, manipolazione e osservazione di oggetti. Crescendo, poi, creiamo nel gioco nuove realtà, reinventando la parola, il movimento, l’amore.
Ogni bambino scopre l’arte scarabocchiando quello che per lui è un “gattino” e nel plasmare quello che per lui è un serpente; in seguito capirà che quella quantità d’argilla usata per formare il serpente è la stessa del blocco originale e così la matematica incomincia ad emergere.
La maggior parte dei bambini in età prescolare e anche quelli di prima elementare, amano andare a scuola, in quanto provano piacere nell’esplorare ed imparare nuove cose. Ma quando arrivano in terza e quarta elementare non provano più quel piacere spesso a causa di numerose pressioni psicologiche. S’incomincia, così, a mettere dei confini entro i quali s’impara a muoversi e tutto ciò che va oltre questi limiti sembra assurdo e irreale. È opportuno, allora, imparare a sfidare questi confini, limiti, presupposti. Questo non significa considerarli errati o proporre alternative migliori, ma ristrutturarli in modo da vederli diversamente e trovare soluzioni apparentemente nascoste.
La tecnica dei “perché” offre l’opportunità di mettere in dubbio i presupposti. Si rifà a ciò che i bambini usano fare abitualmente, il chiedere sempre “perché”. In genere si chiede “perché” quando non si conosce la risposta, invece con la tecnica dei “perché” si pone la domanda proprio quando si conosce la risposta. Perché? Perché anche quando si è giunti ad una soluzione non si dà per scontato che sia quella finale. È ciò che è alla base della ricerca e delle scoperte.
Normalmente c’è una tendenza naturale ad esaurire le spiegazioni o ad attingere a delle spiegazioni già utilizzate.
L’obiettivo di questa tecnica è di evitare di credere che qualsiasi cosa sia tanto evidente da meritare una risposta in termini di “perché”.
Come si esegue tale tecnica?
L’insegnante pone un enunciato: “Le lavagne sono nere”.
Lo studente chiede “perché”: “Perché le lavagne sono nere?”.
L’insegnante propone una spiegazione che a sua volta incontra un altro perché:

  • “Perché altrimenti non sarebbero state chiamate nere, dall’inglese blackboards”.
  • “Perché ci dovrebbe interessare il modo in cui sono state chiamate?”.
  • “Non dovrebbe interessarci”.
  • “Perché?”
  • “Perché ciò che interessa maggiormente è la loro utilità, quella di poterci scrivere o disegnare”.
  • “Perché?”
  • “Perché quando si deve mostrare qualcosa alla classe è il modo migliore per poterlo fare”.

Questo è un modo di ciò che si potrebbe avere tra insegnante e studenti.
Ma al primo assunto la risposta sarebbe potuto essere:
“Perché il nero permette di poter scrivere con il gesso bianco ed essere visibile”.
Le possibili risposte potrebbero essere:
“Perché il gesso è bianco?”, oppure “Perché bisogna usare il gesso bianco?” ecc.
In tutti i casi il “perché” è diretto ad un aspetto particolare del problema che porta all’insorgenza di altre domande e risposte. L’insegnante può condurre il tutto in base al modo in cui dà le risposte e alcune volte può rispondere “Non so, pensate perché”. Se lo studente riesce a dare una risposta allora si possono invertire i ruoli e a questo punto è l’insegnante che pone i “perché”.
Gli argomenti da proporre sono vari:

  • “Perché il cielo è blu?”.
  • “Perché l’uomo ha due gambe?”.
  • “Perché si va a scuola?”.
  • “Perché le ruote sono rotonde?”.

In genere quando si pongono i “perché” l’obiettivo è avere informazioni e una valida spiegazione. Con questa tecnica, invece, si spingono gli studenti a vedere le cose diversamente e di ristrutturare la situazione.
Importante è offrire delle alternative in modo che non si abbia l’impressione che ci sia un’unica soluzione.
Ad esempio alla domanda “Perché le lavagne sono nere?” la risposta potrebbe anche essere che le lavagne possono anche essere di altri colori, l’importante è che si veda il gesso bianco.
Se dietro ad un assunto c’è un motivo storico, questo può spiegare il perché, ad esempio, si è usato il colore nero ma non perché si continua ad usare. A questo punto, una possibile risposta potrebbe essere: “Le lavagne inizialmente erano nere perché si poteva dare risalto ai segni bianchi del gesso. In seguito si è continuato a utilizzarle nere perché tale colore si è dimostrato più valido”.
L’idea di base di tale tecnica non è insinuare dubbi e creare incertezze, anzi si riconosce la grande validità e utilità dei presupposti, sentendosi liberi di poterli utilizzare senza, però, finirne prigionieri.