In sala dal 22 agosto (per No.Mad Entertainment), “Charlie says” di Mary Harron, viaggio nella mente di Charles Manson attraverso gli occhi di una psicologa e tre fedelissime della setta. Manson, lo ricorderete, è il musicista, manipolatore e mandante degli efferati omicidi che sconvolsero gli Usa nell’estate del ’69, tra cui l’assassinio di Sharon Tate. Il film si addentra nei meccanismi di manipolazione e dominio messo in atto al santone. Argomenti che la psicoterapeuta Terry Bruno suggerisce per fare “terapia in sala” …
Charlie says è il film di Mary Harron che uscirà il 22 agosto, per No.Mad Entertainment e che analizza le dinamiche sociali e antropologiche all’interno della setta di Charles Manson, musicista, manipolatore e mandante degli efferati omicidi che sconvolsero gli Usa nell’estate del ’69, tra cui l’assassinio di Sharon Tate.
Il titolo ricorda il gioco Simon says o Simone dice, secondo il quale i bambini eseguono i comandi che l’adulto di riferimento inserisce nella frase che inizia con Simon says. Il titolo, infatti, richiama quello che le tre ragazze appartenenti alla setta e condannate a morte per i brutali omicidi compiuti negli anni ’60 dicono ogni volta che devono esprimere un loro pensiero: “Charlie dice…”.
La pellicola è una splendida ricostruzione storica della “famiglia Manson”, attraverso l’intervento della psicologa del carcere Karlene Faith sulle tre giovani donne, adolescenti all’epoca degli omicidi. L’obiettivo di Karlene è capire non solo cosa le avesse spinte a compiere quegli atti efferati, ma anche renderle consapevoli di ciò che avevano compiuto.
Un obiettivo molto arduo e pericoloso soprattutto per le ragazze, che avrebbero dovuto incominciare a destrutturarsi e a togliersi quella corazza creata per sopravvivere in una realtà apparentemente idilliaca, ma realmente distruttiva.
Attraverso gli occhi e i racconti delle tre accolite di Manson, viene rappresentata la figura carismatica e allo stesso tempo agghiacciante del “santone”, il suo modo di agire e la sua capacità di soggiogare tutti coloro che gli erano vicini.
Dal punto di vista psicologico il suo comportamento manipolatorio è molto interessante. Iniziava con una destrutturazione della personalità, un annullamento della vera identità, con la sostituzione del vero nome con uno scelto da lui. Il passato veniva cancellato, in quanto costituito da regole date dai genitori che avevano creato schemi in cui imprigionare le loro menti, mentre soltanto il presente diventava importante per vivere insieme a lui la libertà di essere se stessi, lasciando andare il proprio ego.
Una libertà apparente, però, poiché Manson non faceva altro che creare nuove regole, nascondendole dietro un’illusoria libertà, e annichilendo il ruolo delle donne, soprattutto, trasformate in mero oggetto sessuale, per soddisfare i desideri maschili degli accoliti della setta, ma soprattutto dei suoi desideri.
Lui era il padrone del loro corpo, della loro mente e della loro anima. Era un’alienazione continua della mente altrui, attuata mirabilmente con un gioco di sguardi, di movimenti, del tono della voce e di quel guizzo di follia che spaventava ma che allo stesso tempo affascinava.
Charlie non faceva altro che soddisfare quei bisogni inconsci di chi si avvicinava alla sua comune, quel desiderio di libertà, di affetto e di considerazione tanto ricercato nella loro vita. Per cui bastava dare rilevanza positiva a un difetto, per poi ripeterlo in coro, in modo ossessivo.
“Il tuo corpo è come una pianta, se non gli dai amore, morirà”. Con questa frase si giustificava l’abbattimento di qualsiasi inibizione sessuale, lasciando andare l’intera comunità a rapporti di gruppo, spesso sotto gli effetti di stupefacenti.
Ma come riusciva Manson a ottenere “liberamente” ciò che voleva? Utilizzava quella che viene definita Psicologia inversa, una pratica che induce una persona a fare o dire qualcosa che in realtà non vuole fare. Charlie, infatti, per indurre una ragazza resistente al suo approccio sessuale, usava frasi del tipo: “Capisco che non hai voglia, qui non costringiamo nessuno, allora andiamo dagli altri”. Ottenendo così dalla ragazza la risposta opposta al suo desiderio: “No, lo voglio”.
La pratica della Psicologia inversa la ritroviamo particolarmente nell’adolescenza, nel processo di ricerca dell’identità. Gli adolescenti, infatti, detestano coloro che vogliono dire loro cosa fare o condizionare le loro scelte, per cui fanno l’opposto di ciò che viene detto.
Quindi quello che Manson faceva con le sue “vittime” era di farle sentire indipendenti, libere di scegliere, e lui ne veniva fuori sempre più forte e idolatrato.
Un altro modo di condizionare le ragazze era quello di agire sul complesso di Elettra. Il complesso di Elettra è una sorta di complesso di Edipo al femminile. Secondo lo psicanalista Carl Gustav Jung non è altro che il desiderio inconscio della bambina di possedere il padre entrando in competizione con la propria madre per il possesso del genitore.
Manson lo utilizzava con le sue accolite-amanti facendole pensare a lui come a un padre con cui liberarsi delle loro inibizioni e delle brutte esperienze che schiacciavano le loro vite. Questo modo di agire si era talmente insinuato nella mente delle sue vittime da creare un nuovo modo di essere, nuove credenze che si radicavano sempre più profondamente col passare del tempo, tanto che dopo anni passati in carcere, continuavano a esistere.
Il condizionamento continuo veniva anche attuato col ripetere all’unisono, a voce sempre più alta e incalzante, frasi mirate al raggiungimento di un obiettivo, creando una sorta di galvanizzazione, uno stato altamente suggestionabile, tanto da indurre a effettuare qualsiasi comando anche sbagliato o senza senso.
Un atteggiamento che ritroviamo nei culti politici, religiosi e militari, il cui leader si assicura che venga sempre seguito nella sua linea di pensiero. Questo condizionamento, sempre più incalzante e devastate portò negli anni ’60 all’uccisione di molte persone tra cui Sharon Tate, moglie del regista Roman Polanski.
Quello che Manson inculcava era che la vita e la morte sono la stessa cosa, per cui non c’è niente di cui aver paura. Quindi se non puoi aver paura, non esisti.
Interessante è l’approccio che Karlene attua con le tre giovani donne condannate all’ergastolo, partendo dalla lettura di un libro sulle violenze domestiche. È un modo indiretto per portarle a considerare che anche loro avevano subito delle violenze, di cui però non erano consapevoli.
La loro prima reazione, infatti, è un senso di tristezza per ciò che quelle donne, menzionate nel libro, hanno subito. A poco a poco la psicologa le porta a riconsiderare se stesse, i propri pensieri e a smettere di dire: “Charlie dice…”. Cominciare a vedere le cose diversamente e a rendersi conto che ciò in cui avevano creduto era solo il risultato di un lavaggio del cervello.
Coloro che Manson ha soggiogato avevano bisogno di essere amati, di sentirsi importanti, in modo incondizionato, per questo avevano accettato l’annientamento di se stessi pur di avere, apparentemente, un briciolo d’amore e considerazione. Ma a cosa è servito tutto questo? È la domanda implicita che pone Karlene alle tre “sopravvissute” della “Manson Family”. Una domanda che continua a rimbombare ancora nella loro testa, nella piena consapevolezza dell’orrore che hanno creato.