Convegno – 3 luglio 2015 Perugia
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L’ascolto al di là delle parole
L’ascolto del minore è stato oggetto di particolare attenzione a partire dalla convenzione dei diritti del fanciullo di New York del 20 novembre 1989, resa esecutiva in Italia due anni dopo, sino alla Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1996, ratificata in Italia nel 2003. Non mi soffermerò sugli aspetti giuridici, in quanto non di mia competenza, ma su come effettuare l’audizione nel modo migliore creando un clima di fiducia che metta il minore a proprio agio permettendo, in questo modo, una comunicazione più congrua e attinente alle sue percezioni e ai suoi vissuti. L’audizione del minore sia all’interno dei giudizi di separazione, divorzio e di quelli correlati alla rottura di convivenze more uxorio, che dei processi penali richiede attenzione e cautela soprattutto dal punto di vista psicologico, anche per valutarne la reale capacità di discernimento del soggetto. Bisogna sottolineare che la capacità di discernimento, cioè la capacità di formarsi una propria opinione, varia a seconda della fascia di età a cui un minore appartiene, e dipende da fattori biologici, sociali e relazionali di base, ma anche da quelli psicologici. La capacità di discernimento si considera acquisita dopo i dodici anni ma non è escluso che minori ben più piccoli, anche di sei-otto anni, possano rappresentare validamente la propria idea. Per questo è utile fare prima una valutazione della sua capacità di effettuare un ragionamento concreto e/o più o meno astratto. Questo permetterà di escludere l’inattendibilità di quanto ha dichiarato a causa della sua minore età. Lo sviluppo di ogni bambino segue ritmi diversi e, così, l’età cronologica di un minore può essere solo un’indicazione molto approssimativa del suo livello di sviluppo. Un bambino, sin dalla nascita, possiede competenze sia a livello socio-cognitivo sia emotivo e relazionale, competenze che col passare del tempo evolvono in seguito alle stimolazioni del contesto familiare e sociale.
Partendo dal presupposto che tutti i soggetti, sia adulti che minori, sono potenzialmente suggestionabili in situazioni tensionali, con una non corretta esposizione degli avvenimenti, risulta opportuno che chi ascolta, giudice o suo delegato, debba porre l’ascoltato in una condizione di serenità, in modo che possa percepire non solo l’interesse di chi lo sta ascoltando, ma soprattutto la sua voglia di comprendere, senza per questo aspettarsi determinate risposte. Qui sta la differenza tra sentire ed ascoltare. Nel primo caso c’è una mera raccolta d’informazioni, mentre nel secondo caso vi è l’attenzione alle esigenze del minore, alle sue idee, ai suoi desiderata.
Nella valutazione della testimonianza di un bambino, le primissime dichiarazioni spontanee sono quelle maggiormente attendibili in quanto non “inquinate” da interventi esterni che possono alterare la memoria dell’evento. È fondamentale spiegare lo scopo dell’intervista, sempre in un’atmosfera amicale, ponendo prima alcune domande non collegate all’indagine del minore, per metterlo a proprio agio:«Quando è il tuo compleanno? Hai fatto una festa? Mi racconti?». In questo modo si verificano anche le capacità linguistiche, mnemoniche e il suo grado di sviluppo.
Chiedere poi:
“Sai perché oggi sei qui?”
“Cosa ti hanno detto?”.
Inoltre bisogna comunicare al minore che deve raccontare la verità e di riferire solo ciò che ricorda e, in caso di difficoltà, di sentirsi libero dire che non è in grado di ricordarlo. Questo, in qualche modo, tende a contenere la pressione dell’aspettativa di chi pone le domande, tanto da indurre un effetto di suggestione.
Esempi di domande suggestionabili:
È assolutamente impossibile che tu non ti ricordi questo fatto. Questa domanda suggestiva fornisce un forte feedback negativo.
⁃ Te lo continuerò a chiedere finché non mi dirai cosa ti ha fatto X, vedrai che dopo avermelo detto ti sentirai molto meglio. In questo caso oltre a creare il dubbio della risposta giusta sono inserite premesse e velate minacce.
Quando si ripropone la stessa domanda si crea uno stato d’insicurezza che può portare ad una ritrattazione di quanto detto, perché il minore può ritenere la sua risposta sbagliata o non corretta a causa della nuova richiesta. Quando si vuole ripetere una domanda già fatta, è sicuramente meglio dire con chiarezza al bambino che è una ripetizione, così lui sarà più tranquillo nel rispondere. Anche alcune domande in cui si chiede il «perché» possono essere interpretate dal bambino con un’attribuzione di colpa o di responsabilità e quindi vanno evitate. Spesso si ritiene, sbagliando, che anche i bambini sappiano quali siano le informazioni rilevanti. Per questo è necessario rivolgere domande specifiche, ma non suggestive, per riportare l’attenzione del minore sul punto focale del racconto.
Inoltre dipende anche molto dal modo in cui vengono poste le domande, nel senso che occorre evitare di inserire nelle domande una descrizione o una valutazione implicita. ⁃ Cosa faceva X quando lo hai visto comportarsi in quel modo? Si suppone che il soggetto abbia visto X fare qualcosa.
Un esempio di domande aperte, corrette e a bassa suggestionabilità:
⁃ Che cos’è successo, che cosa hai visto?
– Ha detto qualcos’altro X?
– Era un uomo o una donna?
Dall’età di 8-9 anni i minori sono suggestionabili; non solo possono modificare ricordi, eliminando o aggiungendo particolari rilevanti, ma addirittura possono costruire falsi ricordi di realtà mai vissute. Per cui in un racconto libero dire: “Cerca di rivedere la scena come se fosse ora../come si presenta il luogo? C’è qualche odore particolare? È chiaro o scuro? Vedi anche le persone che ci sono…che cosa c’è ancora? Che oggetti ci sono?…come ti senti quando sei lì?”. Si porta il soggetto in un contesto sensorialmente basato. S’interviene solo per incoraggiare a continuare a raccontare.
Per bambini al di sopra degli 8 anni si può chiedere di raccontare partendo da un ordine o da una prospettiva diversa. Esempio: “Potresti raccontarmi di nuovo partendo dalla fine e arrivando all’inizio?”, magari supportandolo chiedendogli spesso “Cosa è successo subito prima di questo?”, contrariamente alla regola secondo la quale si devono evitare interruzioni nel corso della dichiarazione. Oppure “Fai finta di essere un’altra persona che assiste al fatto, dimmi cosa ha visto”. Con queste domande si combinano elementi di psicologia con tecniche di stimolazione della memoria, che possono aiutare il minore a ricordare, aumentando la quantità di dettagli nel racconto.
È di specifica importanza tener presente che il minore è portatore non solo di narrazioni ma anche di emozioni, per cui occorre porre particolare attenzione al non verbale: le espressioni del volto, lo sguardo, i movimenti del corpo, i gesti, la sudorazione, i rossori, i tremori, il tono della voce, ecc. Questo perché la realtà non viene rappresentata solo attraverso le parole, ma ha sempre un correlato emotivo, inconscio, che può disconfermare quanto affermato verbalmente. Ed è la parte inconscia quella che rappresenta la reale esperienza del soggetto. Essa inoltre viene comunicata sempre prima rispetto al verbale, creando una comunicazione distorta soggetta a fraintendimenti. Il fatto che venga avviato un processo di comunicazione non garantisce che i messaggi arrivino in maniera coerente con le intenzioni ed i significati di ciascuno. Le cause della distorsione sono sia di carattere psicologico che fisiologico e sono attribuibili sia a chi parla sia a chi ascolta. Riuscire a cogliere l’incongruenza da parte di chi formula le domande, permette di capire lo stato di conflitto, di disagio o d’insicurezza dell’ascoltato.
Il giudice o un suo delegato, deve concedere il tempo necessario per la risposta e si deve porre nella condizione di un ascolto attivo. Quando parliamo di ascolto attivo intendiamo un ascolto in cui si evita di esprimere giudizi e s’instaura un rapport in grado di creare un’empatia e un rapporto di fiducia, ponendo le domande solo dopo che il soggetto, in questo caso il minore, abbia terminato di parlare. In questo contesto bisogna evitare l’utilizzo di termini giuridici o complicati, utilizzando termini semplici ed appropriati all’età del minore. Quando si ascolta si compiono degli errori dovuti: all’incongruenza tra verbale, paraverbale e non verbale; alle generalizzazioni e al riporto a se stessi; al raggiungimento di soluzioni preconfezionate.
Importante è il paraverbale, cioè il tono di voce da utilizzare col minore o con un soggetto debole. Evitare un tono direttivo, autoritario. Parole troppo pressanti che possono incutere ansia e timore. Occorre ricordare che ognuno di noi ascolta per come parla, per cui se il soggetto ascoltato ha un eloquio lento bisogna adeguarsi ad esso evitando un fluire di parole che il minore non riuscirebbe a seguire e quindi a comprendere. Quando ci si rivolge al minore bisogna porre la massima attenzione, guardarlo, ascoltarlo sino a quando ha terminato di parlare per poi eventualmente dire: “Quello che hai detto è molto interessante prendo nota così posso ricordarmelo meglio”. Evitare di scrivere o fare altro durante l’ascolto, è segno di squalifica. Occorre anche evitare di farli aspettare tantissimo in quanto la loro capacità di attesa e di attenzione è bassa. Questo è importante per una buona resa dell’audizione. Sarebbe preferibile che chi effettua le domande sia sempre la stessa persona diventando, così, un punto di riferimento, oltre ad evitare la presenza di troppe persone durante l’audizione. Il minore ha bisogno di sentirsi ascoltato per cui è fondamentale che durante la fase di ascolto attivo chi effettua le domande utilizzi una comunicazione non verbale che faccia capire che l’attenzione è rivolta al racconto e alla persona. Tali incoraggiamenti sono: “uhm uhm”, cenni del capo, un sorriso, ripetizione di una parola chiave o di una breve frase, riformulazione di una frase. Esempi: Ripetizione di una parola chiave o di una frase: “un’ansia tremenda”; “andare via di casa”.
Riformulazioni: “L’unico che ti capisce è …” o “I tuoi genitori si aspettano molto da te”.
Tra gli incoraggiamenti verbali abbiamo: “Ti ascolto…”, “Sto cercando di capire…”. Per incoraggiare il ragazzo a continuare il discorso, ad approfondire quanto sta dicendo, si può dire: “Vuoi dirmi qualcosa di più”, “Continua pure”.
Le domande devono essere aperte, partendo da informazioni già fornite dal minore:
“Ricordi altro?”; “Chi”; “Cosa?”; “Dove?”; “Quando?”. Evitare domande a risposta multipla e soprattutto quelle a risposta chiusa (si/no) perché, la ricerca ha dimostrato,specie con i bambini, che la tendenza sarà a rispondere sì o comunque a rispondere ciò che ritengono faccia più piacere all’intervistatore.
La postura deve essere rivolta verso il minore: busto in avanti che segnala interesse verso l’altro e verso ciò che sta dicendo e possibilmente evitare di essere in una posizione di dominanza che può creare disagio e timore.L’ascolto attivo evita di effettuare delle interpretazioni alla cui base ci sono i nostri valori, le nostre convinzioni, che ci fanno focalizzare l’attenzione su alcuni argomenti piuttosto che su altri. Per cui è importante essere consapevoli dei propri processi psicologici per dare ascolto il più possibile al minore.
“Nell’ascolto non siamo alla ricerca della verità, perché il nostro interesse è rivolto alla persona del minore prima che ai fatti”. (Lombardi ,Tafà, 1998) È possibile che durante l’audizione il minore stia in silenzio. Tale situazione non è iconducibile ad una volontà di evitare di rispondere, bensì ad una non comprensionedi domande reiterate, o ad uno stato di disagio nel dover parlare in un ambiente considerato ostile. Questa situazione è spesso superata se si è instaurato un rapporto empatico e, quindi, di fiducia, per cui è più semplice riprendere in mano le redini della situazione.
Alla fine dell’ascolto del minore, va spiegato il significato che ha avuto l’incontro e che, per quanto possibile, la natura e il contenuto delle decisioni che lo riguarderanno, terranno conto di ciò che ha detto, ma potranno essere diverse. L’obiettivo dell’audizione non è sapere (che cosa pensa, che cosa prova), ma capire (che cosa significa ciò che pensa e qual è, per lui, il senso dell’esperienza che ci racconta), ovvero, se non si vuole correre il rischio di vedere “un cappello” in luogo di un “boa che ha mangiato un elefante”(Saint Exupéry, cit.).