Lo psicologo al cinema: Terry Bruno
La tesi controcorrente di un film molto alcolico
Avreste mai pensato che l’alcol potrebbe essere utile per la propria autostima? È la testi del film danese Un altro giro di Thomas Vinterberg.
Secondo la teoria dello psichiatra-psicoterapeuta norvegese Finn Skårderud, l’uomo è nato con un deficit da alcol pari allo 0,05% e tale mancanza lo renderebbe meno attivo nelle relazioni sociali e in quelle psico-fisiche. In poche parole se noi avessimo una tale percentuale di alcol nel nostro sangue, costante, vivremmo, penseremmo e lavoreremmo meglio. In breve saremmo più felici e migliori.
In realtà questa teoria è stata estrapolata da una frase che Skårderud aveva scritto nella prefazione del libro di Edmondo de Amicis Gli effetti psicologici del vino, tradotto in norvegese. Avreste mai pensato che Edmondo de Amicis, noto per il suo libro Cuore, avesse scritto un libro simile?
Skårderud ha descritto in modo metaforico ciò che provoca lo stato di ebbrezza, quella sensazione di liberazione da vincoli ed euforia che si prova dopo l’assunzione di un paio di bicchieri di vino. Potremmo considerare l’alcol, come asserisce lo stesso Skårderud, un lubrificante sociale che ci aiuta a essere più noi stessi. L’unico problema è trovare un giusto equilibrio nell’assumerlo.
Da un punto di vista psicologico, l’assunzione di alcol, assunto in piccole dosi, determina effetti ansiolitici, rilassanti. Si sciolgono quelle tensioni e timidezze che possono impedire una buona socializzazione, motivo per cui i giovani si concedono qualche bicchiere, andando molto spesso oltre. Questo avviene per gli effetti che si hanno a livello cerebrale.
Mi spiego meglio. Una volta assorbito a livello intestinale, esso va nel sangue e giunge così al cervello alterando i meccanismi della vista, dell’udito, del pensare e si ha il rilascio di endorfine. Ecco perché dopo uno o due bicchieri, la serata decolla, vivendo sentimenti di gioia, euforia e condivisione. La conseguenza di questo stato è una maggiore fiducia nelle proprie capacità (per questo si è più temerari alla guida), ma allo stesso tempo si allungano i tempi di reazione e la percezione è ridotta perché vengono attenuate le aree cerebrali responsabili dell’inibizione e dello stress.
Avete notato che a un certo punto della serata l’atmosfera, prima gioiosa ed eccitante, si trasforma diventando triste e meno entusiasmante. Questo è dovuto all’andamento bifasico dell’alcol, nel senso che i suoi effetti cambiano in base al grado d’intossicazione. Per mantenere l’effetto euforico, bisogna allora tenere il tasso alcolico nel sangue intorno allo 0,05-0,06%.
Ed è proprio questo il tema centrale dell’ultimo film di Thomas Vinterberg Un altro giro, Druk in danese, candidato agli Oscar 2021 come miglior film in lingua straniera e miglior regista. Una pellicola premiata, ma anche criticata proprio per il tema trattato, una sorta di esortazione, secondo alcuni, a ubriacarsi.
Il film racconta la storia di quattro professori danesi di mezza età, in piena crisi esistenziale e insoddisfatti della loro vita costellata da separazioni, isolamenti. Una vita in cui la solitudine fa da padrone. E quando ci si sente frustrati, non capiti e anche insignificanti, magari con l’autostima sotto i piedi, ecco che ci si aggrappa a qualunque cosa possa dare una svolta alla propria vita. Ed ecco che la teoria di Skårderud diventa una sorta di formula magica per essere diversi da come ci si sente e ci si vede. I quattro amici allora decidono di fare un esperimento sociologico incominciando ad assumere ogni giorno piccole dosi di alcol.
Inizialmente i risultati sono positivi, un miglioramento delle relazioni sociali, delle capacità creative, delle performance cognitive. In breve tempo il mondo prima grigio e angosciante incomincia ad assumere colori vividi ed eccitanti. Ed è proprio questo stato di ebbrezza che porta i professori a vivere emozioni ormai sopite, a vedere le cose con occhi diversi, ma allo stesso tempo a cercare di capire sino a che limite ci si può spingere per raggiungere quello stato di eccellenza ed eliminare quell’immagine di perdenti che ormai li rappresentava. Sono queste le scene più coinvolgenti e intimistiche del film, una liberazione da sovrastrutture che col passare del tempo ci si crea e che si incardinano dentro di noi, limitandoci e convincendoci di non essere in grado di ritrovare noi stessi.
Quante volte ci siamo trovati in circostanze che ci sembravano senza via d’uscita e alla ricerca di un qualcosa che cambiasse la situazione, che fosse da stimolo…
Il film è la rappresentazione di ciò che avviene in chi deluso, triste, smarrito, ricorre all’alcol o ad altro, per non pensare o per avere la forza per agire. L’alcol sembra così essere la risposta a tutto. Si procede positivamente fin quando le assunzioni sono ridotte, il problema nasce nel momento in cui si eccede. È ciò che succede ai nostri protagonisti, per cui alla fine sono costantemente ubriachi e con mal di testa permanente, aspetti che poi distruggono chi ha intrapreso questo viaggio complicato.
Un altro giro non è un’esaltazione dell’alcolismo o un giudizio del rapporto con l’alcol e l’alcolismo, anzi è un inno alla vita, all’amore. E come dice il regista Vinterberg: “L’alcol può elevare le persone, avvicinandole alla versione migliore di se stesse, ma può anche ucciderle”. Il film porta a riflettere sulla realtà della propria vita, sulla società, in particolare di quella giovanile (con riferimento a quella danese) che fa un abuso sempre maggiore di alcol e sull’incapacità di affrontare le difficoltà della vita quando diventa noiosa, insignificante e deludente. È proprio questo che Un altro giro spinge a fare, a guardarsi dentro, a non fuggire con espedienti momentanei, ma a trovare delle soluzioni, delle risposte alle insicurezze che appaiono insormontabili.
Il film inizia con un aforisma di Søren Kierkegaard: “Che cos’è la giovinezza? Un sogno. Che cos’è l’amore? Il contenuto del sogno”, dedicato dal regista alla figlia Ilda, morta in un incidente stradale proprio durante le riprese del film, per cui Un altro giro è l’espressione della possibile rinascita anche dal dolore.
La parola chiave che il regista ha voluto mettere in evidenza è “libertà”, libertà di sfidare non solo la paura e l’ansia di poter fallire ma anche le rigide e aride regole della società in cui viviamo, del politicamente corretto, che mettono a dura prova l’entusiasmo di ognuno di noi. Quell’entusiasmo che inesorabilmente, col passare del tempo, si riduce per aspettative disattese, sogni sbriciolati, paura di responsabilità.
Cosa si può fare allora? Allentare un po’ le proprie rigidità e lasciarsi trasportare dal ballo della vita, con leggerezza, come appunto è rappresentato da Vintemberg nella scena finale, che da sola legittima tutto il film, in cui si balla sulla panchina del porto di Copenhagen con le bottiglie di spumante in mano, per festeggiare la fine dell’anno scolastico.
L’attore, che interpreta Martin, il professore di storia che ha lanciato l’idea, assieme ai suoi compagni di ventura, si lancia in una strepitosa danza liberatoria sulle note di What a Life degli Scarlet Pleasures, il cui ritornello What a life, what a night, what a beautiful beautiful ride, si imprime nella mente dello spettatore e lo travolge con il suo ritmo. Un’espressione corporea del proprio Io con le sue fragilità e potenzialità, spogliato di ogni difesa.
Un altro giro è sì un film sulla depressione, sull’isolamento, sull’ansia che affligge, ma allo stesso tempo è la rappresentazione dell’importanza dell’amicizia, del ritrovarsi insieme, della condivisione, delle emozioni da riscoprire, magari in uno stato alterato di coscienza a cui hanno fatto ricorso nel tempo, raggiungendo il successo, Ernest Hemingway, Winston Churchill e Franklin Delano Roosevelt.
Un altro giro è un film incredibile che fa vibrare l’anima.