All’origine della paura. Le “Surbiles” siamo noi

Le “Surbiles”, nell’antica tradizione popolare della Sardegna, sono delle streghe vampire che succhiamo il sangue dei bambini non ancora battezzati. Sono l’espressione di quella parte di ognuno di noi che può esplodere da un momento all’altro in modo inaspettato, inconscio. Quel conflitto interiore tra bene e male che possiamo avvertire in momenti impensabili per qualcosa che non condividiamo, per paura. Tutto questo nel film di Giovanni Columbu che la psicoterapeuta Terry Bruno suggerisce per fare “terapia in sala” …

Surbiles

Surbiles è l’ultimo lavoro di Giovanni Columbu (l’autore di Su Re), passato allo scorso festival di Locarno. Un interessante viaggio nel fantastico, nei miti e nelle superstizioni tramandate di generazione in generazione, tacitamente, come dati di fatto.

Non c’è bisogno di chiedere, le surbiles esistono e succhiano il sangue ai bambini non ancora battezzati. Sono streghe temute e nello stesso tempo rispettate, che vivono nella fantasia popolare della Sardegna. Possiamo definirle anime senza pace, alla ricerca di innocenti bambini il cui sangue dovrebbe alimentare il loro spirito.

Questa credenza popolare ha trovato terreno fertile in una terra afflitta, in passato, da un’elevatissima mortalità infantile che dunque, in qualche modo, poteva dar sollevio e deresponsabilizzare le neo-mamme.

Le surbiles sono entità che possono assumere forme diverse: acqua, fumo, vento o gatto o mosca. Ma anche far parlare gli oggetti, complici fondamentali per l’attuazione di quegli eventi misteriosi e dolorosi che la leggenda rende ancora più ambigua e angosciante. Questo senso di angoscia, mirabilmente creato da Columbu, attraverso le luci, la fotografia, le pause, i silenzi e una musica quasi mistica e ripetitiva, viene raccontato attraverso una serie di testimonianze di donne anziane, testimoni indirette di questi episodi misteriosi.

Surbiles è l’espressione di quella parte che ognuno di noi presenta, in diversa misura, e che può esplodere da un momento all’altro in modo inaspettato, inconscio. È quel conflitto interiore che possiamo avvertire in momenti impensabili per qualcosa che non condividiamo, per paura, facendo nascere una dicotomia tra il male e il bene.

Il film si articola in vari episodi, in cui possiamo capire come, secondo le credenze popolari, le surbiles si manifestavano diffondendo la paura tra le varie comunità dell’isola, prede della superstizione.

Ed ecco l’episodio di una surbile che tenta di entrare in una casa, attraversando un paese solitario, silenzioso, con porte chiuse senza alcuna risposta, che parla con gli oggetti per indurli ad aprire la porta. La cosa interessante è che gli oggetti interrogati sono impossibilitati a poterlo fare perché, ad esempio, lo spiedo ha la punta rivolta verso l’alto, come anche il treppiede e la sedia è stata rivoltata in modo tale che i suoi piedi non toccassero terra, a dimostrazione d’impotenza nell’azione.

Ma non tutte le donne-streghe sono cattive, come si può vedere in uno degli ultimi episodi del film, in cui la surbile cattiva viene attaccata da quella buona per impedirle di catturare un bambino e determinarne la morte. Il tutto avviene in una gelida notte, in cui non ci sono parole, ma gesti, espressioni del viso e un ansimare continuo e indicativo di ciò che sta accadendo.

Una rappresentazione simbolica del tema arcaico della morte a cui fa seguito la rinascita. Un’alternanza di emozioni: paura, curiosità, angoscia e liberazione, accompagnano questo episodio che mette in evidenza il conflitto interiore tra il bene e il male e quando si pensa che il male possa vincere, un nuovo anelito determina il suo definitivo annientamento. E allora ciò che era irreale, impalpabile diventa visibile e definibile, quasi rassicurante e basta un gesto sulla fronte di un bambino allettato per fargli ritornare la voglia di vivere.

Il film è l’espressione della ristrutturazione di quelle paure irrazionali di cui siamo spesso prede e che spesso si utilizzano durante l’infanzia per spaventare i bambini per farli stare buoni.

Al di là delle testimonianze che il regista ha raccolto e che fanno da filo conduttore del film, quello che emerge in modo preponderante è il linguaggio del corpo attraverso cui lo spettatore riesce a cogliere l’essenza di ciò che Columbu ha voluto raccontare: la paura del diverso, del non percepibile, del misterioso. Ed ecco il vagare delle anime in paesaggi spettrali, immagini appena percepite, espressione di un mondo che ognuno di noi vorrebbe tenere lontano, ma che purtroppo teme possa manifestarsi.

 

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