Tavola rotonda Lo sguardo sulle vite degli altri
Il documentario biografico come espressione artistica: un dialogo creativo tra aspetti diversi del funzionamento della mente e dinamiche profonde della psiche.
La realtà dall’apparenza oggettiva, non è altro che l’espressione di una propria percezione, fatta di esperienze, ricordi e attraverso la narrazione subisce un ulteriore cambiamento, dando un volto diverso ai vari personaggi che costituiscono la nostra realtà. I nostri sensi non sono altro che delle finestre che permettono l’entrata di milioni d’informazioni che, una volta giunte al nostro cervello, vengono elaborate e rappresentate, dandoci un’immagine soggettiva del mondo. Percepire è, quindi, percepire il mondo.
Perché un qualcosa di oggettivo si trasforma in un qualcosa di soggettivo. Alla base ci sono le influenze delle nostre esperienze, delle nostre credenze, della nostra cultura, ma anche il modo in cui prendiamo le informazioni attraverso i nostri canali sensoriali. Si creano, così, una serie di immagini, suoni, sensazioni, a cui diamo un determinato significato.
Mi piace moltissimo l’analogia tra il nostro occhio e la macchina fotografica, un catturare un’istante che rappresenta una parte della realtà, congelata in un’immagine. Nel momento in cui le immagini sono manipolate l’immaginario è stimolato, l’osservatore cerca di decifrare le alterazioni formulando una serie di ipotesi integrando l’esperienza sensoriale con i ricordi, la memoria e le sensazioni già vissute, che influenzano la comprensione di ciò che vediamo. E come le immagini una volta venivano impressionate su una pellicola, costituendo la traccia di alcuni momenti importanti immortalati, così le nostre esperienze vengono incamerate dentro di noi, nella nostra memoria, ritenendo solo quelle informazioni che ci hanno colpito, che hanno rispettato le nostre credenze, la nostra cultura, dando un significato particolare a ciò che è stato conservato dentro di noi. Quindi la memoria è quella funzione psichica che permette l’assimilazione, la ritenzione e il richiamo di informazioni apprese durante l’esperienza. I ricordi sono definiti tracce mnestiche e possono avere varie forme e funzioni: come le percezioni sensoriali, parliamo d’immagini, suoni, calore, odori, sapori e questo mi ricorda la madeleine di Marcel Proust nel suo romanzo Alla ricerca del tempo perduto, un dolcetto burroso a forma di conchiglia, imbevuto nel thè, un sapore che lo riportò indietro nel tempo al viso di sua zia Leonie. Così una miriade di ricordi invase la sua mente, combinando il ricordo visivo con il sapore, creando una meravigliosa sinestesia. Ed è nella nascita di un ricordo reale che il tempo della memoria si fa luogo, diventando veicolo, non solo di emozioni, ma di posti reali, vissuti in un lontano passato. Ma i ricordi sono anche collegati alle conoscenze e abilità, relazioni che legano altre informazioni, come la successione cronologica di eventi e immagini, di posizione e orientamento di oggetti. Ma i ricordi non sono fotografie immutabili in quanto cambiano nel tempo e si trasformano ogni volta che vengono richiamati alla memoria, magari edulcorati cambiando un momento, un contesto ben diverso da come viene ricordato. Per quanto ci si possa sforzare, il risultato non potrà essere lo stesso, né tanto meno potrà essere attendibile. Ciò che potrebbe tornare alla mente sarebbe uno spazio e un tempo ricostruiti attraverso i filtri che la nostra mente inserisce, forse per permetterci di vedere altre cose, durante il nostro cammino. E così situazioni tensionali si possono trasformare in rimpianti, creando turbamenti che alla fine confondono.
Marce Proust diceva: “Il ricordo delle cose passate non è necessariamente il ricordo di come siano state veramente”.
Il ricordo può coincidere con la narrazione, in cui il protagonista-narratore descrive attraverso pagine scritte o fotogrammi che si susseguono in una pellicola, ciò che lo pervade, in un tempo senza limiti. È un rivivere nella mente sensazioni slegate a loro volta dallo scorrere del tempo misurabile. Il tempo apparentemente invisibile, appena si allontana lo sguardo diventa inesorabilmente presente. Ma mentre la parola può essere soggetta, in chi la ascolta o la legge a un possibile dubbio, l’immagine ha una forza superiore in termini di verità. È un’affermazione vista e non semplicemente raccontata, in quanto il destinatario di tale comunicazione la vede realizzarsi sotto i propri occhi, nel suo essere presente.
Attraverso la macchina da presa il regista vede e s’identifica in essa, trasmettendo la sua realtà e così lo spettatore, a sua volta, s’identifica con la macchina da presa e in ciò che sta osservando, distaccandosi dal qui e ora e vivendo le emozioni e gli input che magistralmente il regista ha creato, con il movimento, gli effetti luce, le angolazioni, i suoni, dando vita a sinestesie che lasciano una traccia in chi osserva e ascolta. S’inietta così nell’irrealtà dell’immagine la realtà. Questa forza comunicativa delle immagini ha portato negli ultimi tempi a un modo di fare cinema narrativo, attraverso cui si vuole comunicare chi siamo, cosa facciamo e dove vogliamo andare. E in base a come alcuni registi considerano il reale, come abbiamo avuto modo di ascoltare attraverso le parole di Dario Zonta, abbiamo film/documentari in cui vengono raccontate verità attraverso i protagonisti (Rosi), o sulla base di documenti, costruendo magari un’intervista narrativa (Alina Marrazzi), o attraverso figure del paesaggio o della memoria, o ancora un partire da un mondo reale per giungere a un mondo fantastico, per stimolare sogni, immaginazione nello spettatore (Garrone). In ogni caso oltre alle informazioni oggettive, quello che viene descritto, è una realtà soggettiva basata sulle impressioni, in molti casi soprattutto visive, in cui ci viene suggerito non cosa vedere ma come vedere.
Il cinema parla direttamente all’inconscio dello spettatore grazie alla potenza delle immagini e questo modo di raccontare la realtà non fa altro che ampliare la consapevolezza di chi guarda, attraverso le immagini mentali che si creano nell’atto della visione del film. Nasce così un gioco tra realtà, percezione, memoria e immaginazione, grazie all’immagine, questa strana fessura che si apre sul mondo, in cui s’inscrive il mondo, una fessura che unisce e divide corpi ed è un intreccio di visione e movimento.